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Risorse idriche

 
 
 
 

L'acqua e il controllo delle risorse idriche rimane uno dei punti sensibili nella regione Mediterranea e più specificatamente in quella Medio-Orientale.
Sin dall'inizio dell'occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, le risorse idriche riservate ai palestinesi non coprivano il fabbisogno base di acqua necessario agli abitanti. Israele ancora oggi controlla l'83% dell'acqua nei territori occupati e permette solo lo sviluppo d’infrastrutture secondarie all’interno dei territori Palestinesi.

Grazie al monopolio delle principali falde acquifere e al dirottamento del loro corso, Israele si è assicurato il primato nello sviluppo soprattutto agricolo, ma anche industriale. Imponendo ai palestinesi il divieto di allacciarsi alla rete idrica e quello di scavare pozzi oltre una certa profondità, le autorità israeliane hanno così imposto la creazione di un sistema idrico antiquato caratterizzato da un alto tasso di dispersione d’acqua.

Attraverso gli Accordi di Oslo tra l’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP) e Israele, il territorio, infatti, venne diviso in 3 aree: Area A, sotto pieno controllo dell’Autorita Nazionale Palestinese: Area B, sotto controllo palestinese dal punto di vista civile e israeliano per la sicurezza; Area C, sotto pieno controllo israeliano, eccetto che sui civili palestinesi. In quest’area, cui fanno parte il 60% dei territori occupati all’interno di West Bank, le infrastrutture idrauliche non possono essere costruite se non previo rilascio di un permesso speciale da parte delle autorità israeliane, pena la demolizione immediata.

 
 
 
 

Le risorse idriche sfruttate dalla popolazione locale sono essenzialmente due: il fiume Giordano, con i suoi immissari, e una falda acquifera sotterranea che attraversa Israele e Cisgiordania.

Il fiume Giordano, confine naturale tra la Giordania e Israele, ha la sua fonte nelle alture del Golan, precisamente nel monte Hermon, che dal 1967 si trova in territorio israeliano. Attualmente circa il 98% dell'acqua del Giordano è stata deviata attraverso delle dighe costruite dalla Siria, dalla Giordania e da Israele, che oltre a controllarne le sorgenti sul monte Hermon, ha pieno controllo anche su uno dei principali affluenti, il fiume Yarmuk. L'acqua deviata da Israele viene raccolta nel lago di Tiberiade, per poi essere immessa nel sistema idrico nazionale israeliano. Solo una minima parte dell'acqua del fiume Giordano viene sfruttata dalla popolazione palestinese presente in Cisgiordania, grazie ad una diga costruita appena due km a sud rispetto al lago di Tiberiade e a dei sistemi di canalizzazione.

La seconda risorsa, la falda acquifera sotterranea, si estende, invece, dalle montagne dell'alta Galilea fino al deserto di Bersheva. Durante la guerra dei sei giorni (1967) l'esercito israeliano distrusse circa 140 pozzi utilizzati dalla popolazione palestinese per attingere all'acqua della falda. Negli anni successivi, la costruzione di nuovi pozzi da parte dei palestinesi ha sempre richiesto un'autorizzazione preventiva da parte di Israele, il che li ha spinti e a scavare i così detti "pozzi illegali", poi individuati e distrutti dalle forze di sicurezza israeliane. Per cercare di incrementare l'acqua a disposizione dei palestinesi, nel 1995 l'OLP stipulò un accordo con Israele in base al quale la Palestina aveva diritto a prelevare ogni anno 118 milioni di metri cubi d'acqua dalle falde acquifere, a cui si dovevano aggiungere 28,6 milioni trasferiti da Israele verso la Striscia di Gaza e verso la Cisgiordania. Questo accordo però non trovò attuazione a causa dei continui conflitti tra Israele e Palestina, degenerati a seguito della seconda intifada e della conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas.

 
 
 
 

Dopo più di trent’anni di occupazione, qualcosa come 180 villaggi della Cisgiordania non sono ancora collegati a un sistema di distribuzione e circa il 75% delle città e dei villaggi palestinesi non ricevono acqua che per solo poche ore alla settimana. La popolazione viene quindi obbligata a farne riserva in bidoni, che presentano condizioni igieniche precarie e rischiose.

Questa politica israeliana di controllo delle risorse idriche ha determinato una situazione in cui la popolazione palestinese, pur essendo meno della metà di quella israeliana, accede a una quantità di acqua che è sette volte inferiore. Il consumo domestico pro-capite da parte dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, si attesta intorno ai 25-30 litri al giorno, un livello decisamente inferiore ai 150 litri raccomandati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. In Cisgiordania i coloni israeliani sfruttano le risorse idriche nove volte di più rispetto alla popolazione palestinese, ciò non solo grazie ad una serie di condutture costruire ad hoc dal governo israeliano, ma anche per la facilità con cui i coloni ottengono l'autorizzazione per scavare nuovi pozzi. Lo sviluppo e la conservazione dei sistemi idrici municipalizzati palestinesi sono stati lasciati nell’abbandono: lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. Il sistema idrico palestinese è rimasto allo stesso livello del 1967 e la creazione d’infrastrutture idrauliche, che collegano le colonie di popolamento fra loro, rinserra i Territori Palestinesi all’interno di un reticolato strettissimo.

L'enorme quantità di acqua utilizzata dagli israeliani, unitamente alle scarse piogge, fanno si che l'acqua prelevata sia quasi sempre superiore a quella di ricarica che rientra nell'acquifero grazie alle precipitazioni. Ciò determina un abbassamento nel livello dell'acqua che a sua volta causa infiltrazioni di acqua salmastra che diminuiscono la quantità di acqua potabile presente nella falda acquifera. La popolazione palestinese, quindi, per ricaricare le taniche poste sui tetti delle abitazioni, è spesso costretta ad acquistare acqua da aziende idriche israeliane che applicano prezzi maggiorati e non garantiscono nemmeno una fornitura costante.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
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